giovedì, Novembre 7, 2024
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Archeozoologia. La ricostruzione del comportamento umano dall’esame dei resti faunistici recuperati nei siti archeologici

Sogno di ogni archeologo è ritrovarsi di fronte a un abitato umano preistorico e poter osservare una scena di vita quotidiana dei nostri antenati.

Basterebbero anche pochi istanti per fugare innumerevoli dubbi, risolvere annose questioni, trovare ambìte conferme alle numerose ipotesi che ogni giorno vengono formulate dagli studiosi del passato. Ma sappiamo bene che è un sogno, e tale rimarrà, vedere con i propri occhi quello che pazientemente possiamo ricercare solo su quanto la benevolenza della fortuna ha deciso di risparmiare dall’usura del tempo. Pietre, ossa, resti di fuoco sono spesso le uniche tracce per immaginare come eravamo.

Quando riusciamo a ricostruire anche un piccolissimo aspetto della cultura umana del passato, di fronte a esso proviamo un senso di fascino unito a un pizzico di nostalgia, istintivamente. Ci immaginiamo un uomo congiunto indissolubilmente alla Terra e, riscoprendo un lato in più della sua esistenza, al tempo stesso invidiamo la sua conoscenza del mondo naturale.

Forse molti ignorano che le grandi quantità di ossa animali che si ritrovano nei siti archeologici sono tra i documenti più importanti sui quali leggere molti dei gesti quotidiani compiuti dai nostri progenitori. Le informazioni che possono essere dedotte dal loro studio rappresentano preziosi tasselli per ricostruire il grande mosaico della cultura umana del passato.

Le analisi archeozoologiche

Negli ultimi decenni, in particolare a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, all’interno della ricerca archeologica hanno assunto sempre maggiore importanza gli studi condotti sui resti faunistici recuperati nel corso degli scavi.

Determinazione dei reperti attraverso la comparazione con la collezione osteologica di riferimento dell’Unità di Ricerca di Preistoria

La disciplina che comprende tutte le analisi effettuate sui reperti viene generalmente indicata con il termine di “archeozoologia” e consente di ottenere una notevole quantità di dati utili alla ricostruzione del comportamento dell’uomo nel passato. Il materiale esaminato è infatti ciò che rimane degli animali coinvolti nelle attività economiche, rituali e sociali delle comunità umane in epoche preistoriche e storiche (Legge 1978).

Uno dei principali obiettivi dell’archeozoologia è l’individuazione delle specie alle quali sono riferibili i resti ritrovati, condotta attraverso la comparazione degli elementi fossili con scheletri di animali attuali.

Presso l’Unità di Ricerca di Ecologia Preistorica del Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università di Siena è presente un’ampia collezione di confronto di scheletri di macromammiferi, per mezzo della quale è possibile la determinazione dei reperti fossili recuperati nei giacimenti (fig. 1).

Il confronto con ossa di animali attuali è valido sia per resti faunistici di epoca
recente sia per quelli legati a fasi più antiche della storia dell’uomo, in ragione del fatto che le morfologie scheletriche delle varie specie non hanno subìto significative variazioni nel corso dell’intero Quaternario.

Alla determinazione tassonomica dei resti segue la valutazione dell’età di morte o di uccisione degli animali, effettuata attraverso l’osservazione dello stato di eruzione, sostituzione e usura dei denti, nonché del grado di fusione delle epifisi e di ossificazione delle ossa.

In alcuni casi è possibile anche la determinazione del sesso osservando le diverse morfologie di alcune parti scheletriche (coxali, denti) (Grant 1982; Eisenmann 1981).
Una fonte molto importante di dati oggettivi per il lavoro dell’archeozoologo è l’osteometria. In letteratura esistono numerosi lavori che indicano, per ogni specie, quali misure rilevare su denti, elementi craniali e postcraniali. In tal modo si ottengono valori confrontabili, validi per considerare variazioni di taglia, che hanno caratterizzato la storia evolutiva delle varie specie nel Quaternario (Von Den Driesch 1976; Eisenmann 1979 e 1980; Habermehl 1985).

Tutte le analisi precedentemente descritte riguardano esclusivamente reperti per i quali è possibile risalire alla specie di appartenenza. Molto spesso, però, il materiale osteologico recuperato negli scavi archeologici è per la maggior parte costituito da
frammenti non determinabili a livello tassonomico. La frazione di campione che comprende questi resti viene indicata con il termine “indeterminato” e la sua analisi risulta indispensabile per ottenere un quadro più completo delle attività di sussistenza adottate dall’uomo (Blumenshine & Selvaggio 1988; Outram 2001).

Lo studio archeozoologico include infatti un’accurata analisi tafonomica dei resti faunistici. Ogni piccola modifica rilevabile sulle ossa viene analizzata al fine di individuare quali agenti (e con quale grado rispettivamente) hanno influenzato la conservazione e l’eventuale trasformazione dell’accumulo osseo ritrovato.

Tra gli agenti di natura biotica è compresa l’azione antropica. A essa sono legate varie tipologie di tracce riscontrabili sulle superfici ossee: strie, fratture, incavi provocati dall’uomo attraverso l’utilizzo di strumenti da taglio e da percussione nelle operazioni di trattamento delle prede (Malerba & Giacobini 1995; Giacobini et al. 2000; Bonnichsen 1989).


La Grotta dei Santi
Tra i vari giacimenti in studio da parte della nostra Unità di ricerca, di particolare interesse è la Grotta dei Santi nel Monte Argentario (Grosseto), riferita al Paleolitico medio. I dati fino a oggi ottenuti in questo sito rappresentano un chiaro esempio
dell’importante contributo che le analisi archeozoologiche possono fornire alla ricostruzione del contesto antropico in studio.
La Grotta dei Santi si apre nel calcare cavernoso del versante sud-orientale dell’Argentario in una piccola cala, la Cala dei Santi appunto, delimitata a sud-ovest dalla punta dell’Avvoltore (fig. 2).

La cavità attuale è il residuo di una ben più ampia caverna in buona parte scomparsa in epoca pretirreniana (cioè precedente all’ultimo episodio interglaciale), come dimostrano gli enormi blocchi di crollo ancora visibili sul fondo marino. Di tale caverna
rimangono tracce anche in una grande nicchia, priva di riempimento, e in altre nicchie minori sospese sulla falesia (fig. 3).

La Grotta dei Santi vista dal mare Veduta interna della Grotta dei Santi
(foto di Stefano Ricci)


La grotta, lunga 45 metri e larga, nel suo punto massimo, 40, è formata da un unico vasto ambiente la cui volta si trova a circa 18 metri s.l.m.; il riempimento, asportato nella parte anteriore, occupa ancora i 2/3 della cavità ed è costituito da un potente
deposito di circa 10 metri di spessore (fig. 4). La presenza di resti preistorici alla Grotta dei Santi era già stata segnalata in passato da vari studiosi (Salvagnoli & Marchetti 1843; Nicolucci 1869), tra i quali Aldo G. Segre dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana, che ne aveva fornito una prima accurata descrizione della sequenza stratigrafica (Segre 1959).

Industria litica della Grotta dei Santi: a) – b) livelli musteriani Stadi di usura dei denti giugali di un cinghiale (Sus scrofa) in
(a: da Segre 1959; b: indagini Università di Siena); relazione all’età (da Habermehl 1985)
c) livelli olocenici (da Segre 1959)

Le ricerche dell’Università di Siena alla Grotta dei Santi – condotte dall’U.R. di Ecologia Preistorica (Dipartimento di Scienze Ambientali “G. Sarfatti”) in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana – sono iniziate nel 2007 (Freguglia et al. 2007; Moroni Lanfredini et al. 2010) e sono tuttora in corso. Le indagini svolte hanno messo in luce la presenza di più fasi di frequentazione dell’Uomo di Neandertal. Tutti i livelli antropici hanno restituito, in associazione all’industria litica (fig. 5), abbondanti reperti faunistici (mammiferi, rettili, uccelli e molluschi).

Tra la malacofauna si segnala il rinvenimento di grosse quantità del bivalve Callista chione, elemento che accomuna la Grotta dei Santi ad altri siti musteriani italiani. Non sono ancora disponibili datazioni per i diversi livelli di occupazione,collocabili comunque, dal punto di vista stratigrafico, in un arco di tempo compreso tra la fine dell’ultimo interglaciale (stadio isotopico 5e) e circa 40.000 anni fa. Nel panorama preistorico toscano e, più in extenso, dell’Italia centrale, la Grotta dei Santi si
colloca tra le più significative testimonianze relative al Paleolitico medio, in quanto la potente sequenza stratigrafica ivi conservata rappresenta un prezioso archivio di dati antropici, climatici e paleoambientali relativo agli ultimi 100.000 anni.

I resti di macromammiferi

Al momento è stata effettuata l’analisi di un limitato campione di resti di macromammiferi recuperati a Grotta dei Santi che in ogni caso ha consentito la determinazione tassonomica di un discreto numero di ossa (Moroni Lanfredini et al. 2010). La maggior parte dei resti di macrofauna fino a oggi determinati appartiene

a ungulati (tab. 1). Tutti i livelli indagati hanno restituito ossa riferibili al cervo rosso (Cervus elaphus). Resti di un altro cervide, il capriolo (Capreolus capreolus) provengono invece dai soli livelli 110 e 111, insieme a quelli di un grande bovide adattato a zone aperte e oggi estinto, l’uro (Bos primigenius), rappresentato per
altro in tutti gli altri livelli (questa specie, la cui altezza al garrese poteva raggiungere il metro e ottanta, durante il Paleolitico ebbe un’ampia diffusione negli ambienti steppici e di prateria arborata presenti nell’Italia centro-meridionale). Da un livello più basso (1004), e solo da questo, sono state recuperate ossa di stambecco
(Capra ibex).

Tutti questi resti rappresentano ciò che rimane degli animali uccisi dai cacciatori neandertaliani di Grotta dei Santi. Durante il Paleolitico lo sfruttamento delle risorse animali da parte dell’uomo era basato principalmente sugli ungulati il cui reperimento avveniva seguendo una logica opportunistica. È infatti da escludere l’ipotesi che l’uomo abbattesse preferibilmente alcune specie piuttosto che altre. Gli animali più diffusi nel territorio erano certamente i più cacciati.

Con queste premesse è facile intendere come la valutazione della rappresentazione delle singole specie nel campione determinato a livello tassonomico (effettuata
considerando le frequenze percentuali dei resti sul totale) possa riflettere il grado di diffusione degli animali nei dintorni del sito.
Questo dato riferito agli erbivori, mammiferi più di altri vincolati alla copertura vegetale e alle oscillazioni climatiche, contribuisce alla ricostruzione degli ambienti in cui viveva l’uomo paleolitico (De Grossi Mazzorin 2008). Nel caso di Grotta dei Santi sono in corso analisi volte all’allargamento del campione determinato, a oggi ancora troppo ridotto per fornire dati significativi in questo senso (Moroni Lanfredini et al. 2010). Nonostante ciò, già in queste prime fasi di studio è possibile osservare come, tra le specie rappresentate, siano compresi due taxa legati ad ambienti boschivi
(il cervo e il capriolo) associati all’uro, che poteva invece occupare zone più aperte di prateria arborata. Un elemento di diversificazione che, sotto il profilo stratigrafico, potrebbe assumere rilevanza è il rinvenimento dello stambecco nel livello 1004. L’acquisizione di ulteriori dati consentirà di meglio valutare se questa presenza – cui
sembra associarsi, rispetto ai livelli superiori, una diminuzione dei cervidi – abbia valenza paleoclimatica ed essere quindi indicativa di un’oscillazione del clima in senso arido.
Una volta definito su quali animali si concentravano le attività venatorie dell’uomo, la ricerca continua valutando per ogni specie l’età di morte degli individui, cui è possibile risalire con un certo grado di approssimazione tramite l’esame di alcune parti scheletriche. La presenza di epifisi non saldate o non completamente fuse agli elementi diafisari e di resti la cui ossificazione non è completamente conclusa dimostra la presenza di individui giovani. Nella valutazione dell’età di morte degli animali gran parte dei dati è ottenibile dall’analisi dei denti ritrovati, sia per il buon numero di questi che spesso viene recuperato, sia per l’agevole esame che può essere su di essi condotto.

Per ogni specie, oltre al semplice conteggio dei denti decidui, si procede all’osservazione dello stato di usura della superficie occlusale dei denti permanenti.

I dati ottenuti vengono confrontati con quelli presenti in un’ampia letteratura di riferimento (Grant 1982; Eisenmann 1981; Habermehl 1985). Esistono infatti molti lavori che riportano, per ogni singola specie di erbivoro, le usure della superficie masticatoria in relazione all’età dell’animale, permettendo così di suddividere i resti esaminati in elementi riferibili a diversi stadi di crescita (fig. 6). Questi esami non consentono di risalire al numero preciso di anni, ma permettono di dividere i
resti ritrovati in ossa appartenenti a soggetti giovani, subadulti, adulti e senili. L’importanza di tale dato è legata alla possibilità di ottenere informazioni più dettagliate riguardo la gestione da parte dell’uomo delle risorse animali, verificando, all’interno delle specie, l’esistenza di abbattimenti selettivi di specifiche classi di
età. Riguardo al cervo rosso, l’ungulato più cacciato dall’uomo a Grotta dei Santi, la maggior parte dei resti di questo appartiene a individui adulti e subadulti.
Per ogni specie cacciata è inoltre molto importante valutare quali parti scheletriche sono rappresentate nell’insieme osseo recuperato e le loro quantità. Nel luogo di abbattimento della preda, che poteva distare anche molti chilometri dal rifugio,
l’impossibilità di trasportare alle grotte e ai ripari intere carcasse animali di considerevoli dimensioni poneva il cacciatore preistorico di fronte alla scelta di quali parti della preda rimuovere, abbandonando il resto.

Le porzioni anatomiche sulle quali potevano ricadere le scelte antropiche dovevano essere quelle capaci di fornire la maggiore quantità (e la migliore qualità) di
risorse: carne, midollo, grasso e anche prodotti non alimentari come pelli, corna, tendini e legamenti (Metcalfe & Jones 1988; Brink 1997; Emerson 1993). In contesti paleolitici è comune osservare tra i resti di ungulati recuperati la dominanza di elementi del cranio e degli arti. Riguardo a Grotta dei Santi, gli elementi riferibili alla specie più abbondante, il cervo, sono per la maggior parte relativi a queste ultime parti anatomiche. La relativa mancanza di ossa del rachide spesso registrata nei resti delle prede dell’uomo preistorico suggerisce che il recupero della carne da questa regione anatomica fosse effettuato direttamente sul luogo di uccisione della preda, riducendo al minimo il trasporto al sito della colonna vertebrale e delle coste. Nel materiale recuperato negli strati fino a oggi indagati della grotta grossetana gli elementi del rachide sono rappresentati da pochi frammenti inclusi nel
campione indeterminabile a livello specifico. Nel sito avveniva la vera e propria macellazione delle frazioni animali trasportate, utilizzando strumenti litici e seguendo precisi step operativi. Dopo lo spellamento si procedeva alla disarticolazione delle par

ti (tagliando tendini e legamenti) e al recupero della carne. Per questo venivano impiegati strumenti in pietra dal bordo tagliente. Tali operazioni provocavano sulle superfici delle ossa degli animali segni di taglio che vengono oggi attentamente esaminate dagli archeozoologi. L’analisi della morfologia e della posizione
di queste tracce sulle diverse parti scheletriche può infatti fornire importanti informazioni per la ricostruzione delle metodiche adottate dall’uomo preistorico nella macellazione delle prede (Bonnichsen 1989; Lupo 1994). Una buona quantità di elementi di macrofauna recuperata a Grotta dei Santi presenta queste evidenze (fig. 7). La posizione di striature in zone dello scheletro non interessate dalla presenza di carne, bensì da robusti fasci fibrosi, suggerisce azioni di taglio legate alla disarticolazione della carcassa. Negli ultimi anni sono state sviluppate nuove tecniche per lo studio micromorfologico di queste tracce.

La valutazione di alcune caratteristiche di queste evidenze (profondità, angolo di incisione, rapporti lunghezza-larghezza) può fornire informazioni fondamentali per il loro riconoscimento e per capire in quali operazioni e con quali strumenti siano state provocate. In questo settore di ricerca l’U.R. di Ecologia Preistorica sta portando avanti studi all’avanguardia, accolti con vivo interesse dalla comunità scientifica internazionale, grazie all’utilizzo di un videomicroscopio digitale tridimensionale di ultima generazione (Hirox Digital Microscope KH-7700) (Boschin & Crezzini 2011).

Segni di taglio sul lato ventrale di una prima falange di cervo rosso (Cervus elaphus)

Coni di percussione

Una delle più importanti funzioni di questo strumento (AMF 3D – Auto Multi
Focus 3D Function)
permette di ottenere immagini tridimensionali ad alta risoluzione delle superfici ossee, con la possibilità di osservare le stesse da più angolazioni, variando in tempo reale i valori dei tre assi.

Strie lasciate dall’azione dell’uomo sulla superficie ossea di un reperto (foto ottenuta al videomicroscopio elettronico 3D)PROFILOMETRIA ottenuta al microscopio digitale 3D HIROX

Sulla foto ottenuta si possono eseguire misurazioni angolari e lineari (queste ultime dell’ordine del micro centimetro), valutando in maniera oggettiva le micromorfologie
del segno analizzato (fig. 8), tutto questo con tempi di esecuzione

molto rapidi. Questi studi vengono spesso integrati con la realizzazione di prove sperimentali effettuate su carcasse di animali attuali che riproducono la macellazione seguendo le possibili sequenze operative adottate dall’uomo preistorico. Le tracce così
ottenute vengono confrontate con quelle ritrovate nei campioni fossili valutando le analogie/differenze che confermano/smentiscono le ipotesi avanzate dagli archeozoologi riguardo alle tecniche adottate dall’uomo nel trattamento degli animali (Boschin & Crezzini 2011).
La macellazione degli animali da parte dell’uomo preistorico si concludeva con la frattura delle ossa. Una fonte di sostentamento molto importante, ricavabile soprattutto dalle ossa lunghe degli arti dei mammiferi, era infatti rappresentata dal midollo, il cui consumo, affiancato a quello della carne e dei vegetali raccolti, completava la dieta del cacciatore preistorico. Per il recupero di questa importante sostanza lipidica si procedeva alla rottura sistematica delle diafisi. Questa azione antropica è testimoniata dalla presenza sulle superfici ossee di alcune tracce ben riconoscibili. Si tratta di incavi di percussione presenti soprattutto sulle frazioni diafisarie che segnano il punto di impatto di un percussore litico sull’osso. Da questi punti di rottura si staccano piccoli frammenti comunemente indicati con il termine “coni di percussione”, di dimensioni generalmente non molto grandi (1-6
cm) e dalla tipica forma triangolare (fig. 9). La frammentazione delle ossa operata dall’uomo preistorico per il recupero del midollo è molto spesso la ragione principale per la quale in siti paleolitici l’insieme dei resti faunistici presenta un’alta frammentazione.

Questo trattamento abbassa notevolmente la percentuale di ossa determinabili a livello specifico, aumentando l’ampiezza del campione “indeterminato”. Da qui la necessità di effettuare un’attenta analisi di quest’ultimo per ottenere un’immagine più completa del campione osteologico. Insieme ai frammenti delle ossa lunghe, rotte per il recupero del midollo, all’interno del campione indeterminato si possono ritrovare, ad esempio, numerose porzioni delle fragili ossa craniali, quelle di alcune parti scheletriche come le vertebre o le coste e coni di percussione; inoltre sulle superfici ossee è possibile registrare la presenza di strie e incavi di percussione provocati dall’azione dell’uomo durante la macellazione degli animali. Questi dati assieme alla valutazione stessa del grado di frammentazione del campione osteologico recuperato, ottenuta dividendo i frammenti ossei in classi dimensionali, possono aiutare a meglio definire le strategie di sfruttamento degli animali da parte dell’uomo (Blumenshine & Selvaggio 1988; Outram 1991).

Nella fig. 10 vediamo un esempio di incavo di percussione rinvenuto in un frammento osseo di Grotta dei Santi. L’alta frammentazione del campione faunistico recuperato in questa grotta suggerisce un’incisiva attività di rottura delle ossa per il recupero del midollo attuata dai cacciatori preistorici che la abitarono.


Tra i resti dei macromammiferi recuperati a Grotta dei Santi vi è una non trascurabile quantità di ossa provenienti dal livello 110 riferibili a due grandi carnivori diffusi nella nostra penisola durante alcune fasi del Quaternario: la iena macchiata (Crocuta
crocuta spelaea) e il leopardo (Panthera pardus; fig. 12). All’interno dello stesso livello e nel 1004 sono stati raccolti anche numerosi coproliti (fig. 13).

Grotta dei Santi: prima falange di leopardo
Grotta dei Santi: coproliti riferibili alla forma pleistocenica della iena macchiata

Questi, per morfologia e dimensioni, sono riferibili alla iena macchiata (Horwitz & Goldberg 1989). Tali ritrovamenti suggeriscono l’occupazione della cavità da parte di questo ienide durante fasi di assenza dell’uomo. Come le iene attuali, oggi diffuse nelle regioni centro-meridionali dell’Africa, Crocuta crocuta spelaea utilizzava le grotte come tana neonatale, trasportando all’interno di esse parti di carcassa delle prede (Fosse 1994, 1995 e 1999; Frank 1986a e 1986b). Sulle superfici dei resti ossei accumulati si ritrovano oggi i segni della sua potente masticazione. Tra questi sono comprese strie simili a quelle descritte per la macellazione operata dall’uomo, dalle quali generalmente si differenziano per la presenza di profili più arrotondati e profondità minori. Anche queste strie vengono analizzate al video microscopio digitale 3D (fig. 14). Più difficile è spiegare la presenza nella Grotta dei Santi del leopardo, testimoniata dal ritrovamento di non pochi suoi resti. Questo animale comunemente non utilizza grotte come tana.

Le misure biometriche effettuate sulle ossa di iena macchiata sono in linea con quelle già rilevate in altri resti di Crocuta crocuta spelaea provenienti da numerosi siti europei del Paleolitico medio. Esse sono leggermente superiori ai valori medi relativi alle forme attuali, suggerendo una taglia più robusta degli individui pleistocenici (Straus 1982; Bonifay 1971).

Recente è l’individuazione tra il materiale determinato di un dente di rinoceronte quasi integro (fig. 15) recuperato negli stessi strati dai quali provengono i resti di iena e di leopardo. Tra le ossa riferibili allo stambecco recuperate nel livello 1004
è compreso un neurocranio appartenuto a un individuo maschile adulto, mancante delle cavicchie, molto probabilmente spezzate dall’uomo alla sua base. Su ambedue i condili occipitali sono presenti strie da strumento litico (fig. 16), riconducibili alla separazione del cranio dalla prima vertebra cervicale (Binford 1978).

Grotta dei Santi: molare di rinoceronte
Grotta dei Santi: neurocranio di stambecco con segni di taglio sui condili

All’interno di un insieme come quello recuperato a Grotta dei Santi, costituito in larga misura da parti scheletriche di ungulati fratturate dall’uomo, il ritrovamento di un neurocranio integro fa supporre che gli abitanti della grotta avessero riservato a questo elemento un particolare trattamento. Tale dato, unitamente alla collocazione, forse non casuale, del neurocranio presso il grande focolare nelle vicinanze del quale è stato rinvenuto anche un secondo frammento craniale di stambecco (sempre di individuo maschile adulto, costituito dalla cavicchia sinistra quasi integra associata a una frazione di temporale), potrebbe lasciare spazio a ipotesi concrete circa l’importanza simbolica attribuita dalle genti neandertaliane allo stambecco e in particolare a questa sua parte anatomica. Del resto, l’evidenza della Cala dei Santi richiama in modo diretto la paleosuperficie situata a tetto del Tg. 56 del Riparo del Molare di Scario (Salerno) (Ronchitelli 1993; Boscato et al. 2002), dove sono
stati rinvenuti, accanto ad altri reperti faunistici, due elementi craniali di stambecco composti, questa volta, dalle cavicchie intere e da porzioni del temporale e del frontale. Come possiamo notare ancora oggi, confrontando popolazioni di cacciatori-raccoglitori di diverse aree geografiche, le tecniche di reperimento delle prede, la loro macellazione e il recupero di risorse legato a queste attività sono espressione di diverse culture. Studi etnografici condotti sulle ultime popolazioni di
“custodi della Terra” (Boscimani, Nunamiuts, Aborigeni, Hadza eccetera) dimostrano come le scelte riguardanti le attività venatorie e la sequenza operativa adottata per il trattamento di una carcassa siano effettuate in base alla necessità di ottenere
precisi prodotti, i più utili o significativi per la sussistenza della comunità (favorendo ad esempio in alcuni casi il recupero del grasso, della carne o anche di altro materiale non necessariamente commestibile come pelli, tendini o corna) (Binford 1978
e 1981; O’Connell et al. 1988; Oliver 1993; White 1952, 1953a, 1953b, 1954). Molto spesso queste scelte sono influenzate dal tipo di ambiente nel quale l’uomo vive (deserti, piuttosto che savane, foreste o zone glaciali) e sempre sono espressione della sua cultura. Ricostruire con ratio scientifica le metodiche di sfruttamento degli animali adottate dall’uomo preistorico significa quindi indagare e ottenere importanti informazioni sulla cultura del passato.

Segni di masticazione lasciate dall’azione di un carnivoro sulla superficie
ossea di un reperto (foto ottenuta al microscopio digitale 3D HIROX)

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