Il grande genio logico matematico che passeggiava con Einstein a Princeton
Qualcuno aveva addirittura ipotizzato che fosse un alieno per quella incredibile penetrazione della sua mente.
Si interessò anche alla dimostrazione dell´esistenza di Dio come i filosofi antichi. Conquistò la fama a soli venticinque anni pubblicando il grande teorema.
A cura di Piero Musilli e di Franco Prattico – 2006
Kurt Gödel (Brno, 1906 – Princeton, 1978), matematico, logico e filosofo austriaco naturalizzato statunitense, noto soprattutto per i suoi lavori sull’incompletezza delle teorie matematiche. Ritenuto uno dei più grandi logici di tutti i tempi insieme ad Aristotele e Gottlob Frege, le sue ricerche ebbero una significativa influenza, oltre che sul pensiero matematico e informatico, anche sul pensiero filosofico. Quindi l’impatto delle sue opere fu enorme e si diffuse anche fuori dal mondo accademico matematico.
Buona parte della ragione per credere che la coscienza sia in grado di influire su giudizi di verità in modo non algoritmico deriva dalla considerazione dei due teoremi di Gödel. Il teorema di Gödel può essere considerato una sorta di terza rivoluzione scientifica del XX secolo (insieme alle due teorie della relatività e alla meccanica quantistica), aprendo la strada a nuove rivoluzionarie nuove strade ed intuizioni sul mondo.
Un altro grande scienziato dell´epoca, John Von Neumann, lo definì “il più grande logico dopo Aristotele”. Ma forse il primo di tutti è proprio Gödel.
“Se riusciamo a renderci conto che il ruolo della coscienza non è algoritmico nella formazione dei giudizi matematici, in cui sono un fattore importante il calcolo e la dimostrazione rigorosa, allora senza dubbio potremo convincerci che un tale ingrediente non algoritmico potrebbe essere cruciale anche per il ruolo della coscienza in situazioni più generali (non matematiche). […] Qualsiasi algoritmo (abbastanza esteso) un matematico possa usare per stabilire la verità matematica – o […] qualsiasi sistema formale adotti […] – ci saranno sempre proposizioni matematiche […] di cui il suo algoritmo non sarà in grado di dare la soluzione. Se il funzionamento della mente del matematico fosse interamente algoritmico, l’algoritmo (o il sistema formale) da lui usato per formarsi i giudizi non gli permetterebbe di giudicare la proposizione costruita col suo algoritmo personale”. [Abstract tratto dal noto libro del premio Nobel Roger Penrose, “La mente nuova dell’imperatore”, Rizzoli, Milano, 1992, pag. 526]
Li chiamavano “i due di Princeton”. Erano i due maggiori geni scientifici del Novecento: Albert Einstein e Kurt Gödel. E per le strade di Princeton, negli anni Cinquanta, era spesso possibile vederli passeggiare intenti a discutere animatamente in tedesco – nessuno dei due in realtà parlava un inglese fluente. Gödel un giorno disse che andava d’accordo con Einstein anche perché era l’unico (o uno dei pochi) che lo contraddiceva.
Il primo allegro, ironico, pronto allo scherzo e alla battuta, al paradosso. Gödel invece, magro, viso triste ed emaciato, occhi febbrili, meticoloso, diffidente, ipocondriaco, convinto fin dalla prima giovinezza di essere gravemente malato. Difficile immaginare due personalità più diverse. Eppure amicissimi.
Entrambi fiori all´occhiello dell´Ias (Institute for Advanced Studies di Princeton) e della comunità scientifica americana in gran parte formata (negli anni Quaranta e Cinquanta) da scienziati fuggiti da tutta Europa – ma principalmente dalla Germania e dall´Ungheria – per sottrarsi alle persecuzioni naziste (e non erano solo ebrei), una diaspora che, grazie a Hitler, ha fatto grande la scienza americana nel secolo scorso.
Molto meno noto al grande pubblico Gödel non solo per il suo carattere riservato e introverso, ma principalmente perché la sua materia, la logica matematica, e i suoi due teoremi di incompletezza (o di indecidibilità) del 1931 se hanno segnato un punto di svolta epocale nella logica matematica, nella matematica ed in generale nella scienza moderna, erano e sono rimasti scarsamente intuitivi e quindi poco accessibili a un pubblico di “non addetti ai lavori”.
Ma la sua fama, negli ambienti scientifici e filosofici, Gödel l´aveva già conquistata nel 1931, quando su una rivista tedesca, allora venticinquenne, aveva pubblicato il suo celebre teorema “Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e di sistemi affini”, titolo che certamente ai non matematici né logici non diceva probabilmente nulla, ma che sconvolgeva dai fondamenti la stessa scienza su cui è costruito il sapere moderno, la matematica. In pratica, significa che dato qualsiasi sistema assiomatico (costruito cioè sulla base di un gruppo di assiomi, come l´aritmetica che si studia alle scuole elementari o la geometria euclidea) è sempre possibile trovare una proposizione che fa parte di questo sistema, che è vera, ma che non è dimostrabile sulla base degli assiomi del sistema stesso. Cioè che qualsiasi sistema formale, costruito su un gruppo di assiomi, è incompleto. Non quindi come qualcuno ha cercato di interpretare, la scoperta di un limite alla potenza rivelatrice della logica matematica, ma al contrario la dimostrazione che la matematica non è un sistema “chiuso”, autoconsistente e in un certo senso tautologico, ma al contrario è aperto alla “scoperta” di nuove relazioni logiche e alla inclusione di nuovi enti.
Eppure i due geni, Einstein e Gödel, che passeggiavano chiacchierando per le strade di Princeton nella loro profonda diversità erano accomunati – strano a dirsi – da una eguale riserva, se non da un rifiuto, sulla maggiore e più sconvolgente delle rivoluzioni scientifiche del Novecento: la meccanica quantistica.
Era principalmente il “principio di indeterminazione” di Heisemberg, che sancisce la impossibilità di applicare previsioni deterministiche al mondo microscopico degli atomi e delle particelle, ponendo un limite, inaccessibile in linea di principio, alla possibilità di conoscere le viscere più segrete della natura, a venire rifiutato da entrambi, perché introduce elementi di imprevedibilità, se non di “non causalità” nella visione scientifica del mondo. E se ciò urtava la fede di Einstein nella totale leggibilità del mondo (“Dio non gioca a dadi” e quindi non consente impenetrabili giochetti ai danni di noi poveri e limitati esseri umani), dall´altro offendeva in Gödel la fiducia nella assoluta razionalità della natura e la sua ripugnanza verso la casualità. Per lui, platonico convinto, il mondo sensibile o conoscibile attraverso i nostri strumenti è rispecchiamento di un ordine trascendente perfetto, e quindi come tale è totalmente conoscibile in quanto riflesso di una costellazione di enti logici penetrabili dalla intuizione del matematico. Se – come dimostrò – la coerenza di un qualunque sistema assiomatico è indecidibile, è perché ogni proposizione vera ma non riconducibile agli assiomi di partenza dimostra solo che è incompleto il sistema assiomatico.
L´atteggiamento di Gödel aveva profonde radici nella sua stessa biografia. Era tormentato fin da bambino da una inesauribile curiosità, al punto da venire soprannominato “signorino perché”. E per ogni domanda pretendeva una risposta, nella convinzione che è impossibile che non vi sia una spiegazione razionale per ogni enigma. E nella matematica e nella logica, all´università, individuò lo strumento che gli consentiva di cercare le risposte.
Ma per Gödel le risposte vanno cercate non nell´empiria sperimentale, viziata dai nostri fallibili sensi, bensì nel perfetto empireo delle Idee, a cui possiamo avere accesso tramite l´intuizione e l´uso degli strumenti intellettuali offerti dalla matematica e raffinati dalla logica in costruzioni sempre più astratte di concetti ed enti. Insomma per Gödel il mondo delle idee ha la stessa consistenza di quello materiale, degli oggetti che ci circondano: “Le classi e i concetti (matematici) – scriveva – devono venire concepiti come oggetti reali, esistenti indipendentemente dalle nostre costruzioni e definizioni. L´esistenza di tali oggetti sembra altrettanto legittima di quella dei corpi fisici”. Quindi, per lui – profondamente platonico – i risultati della nostra ricerca sul mondo vanno perciò cercati dentro di sé. Solo nell´introspezione è possibile raggiungere delle verità matematiche. E se queste tardano, è perché le nostre menti sono continuamente in sviluppo: non c´è enigma che un giorno non possa venire svelato. Insomma per Gödel il mondo delle idee ha la stessa consistenza di quello materiale, degli oggetti che ci circondano. Anche lo stesso Universo, in quanto rappresentabile nei termini di quegli enti, eterni e perfetti, a cui il matematico fa ricorso per rappresentare il mondo materiale. E così, utilizzando la geometria differenziale, Gödel tentò nel 1949 di fornire delle soluzioni alle equazioni della relatività generale (sulla cui base oggi descriviamo e interpretiamo l´Universo) che ipotizzavano un Universo rotante il cui tempo ciclico (con un periodo di settanta miliardi di anni) consentirebbe viaggi nel passato e dove la stessa “linea del tempo” era curiosamente deformata (una ipotesi che i dati osservativi di cui dispongono oggi gli astronomi non consentono di confermare).
E se l´Universo (ossia, il Tutto) è accessibile alla logica, perché ad essa dovrebbe sfuggire Dio? E quindi Gödel si misurò con la celebre prova ontologica dell´esistenza di Dio di Anselmo d´Aosta, affrontando la costruzione logica di quella prova (che consiste nella “perfezione” dell´Ente Supremo, ossia nel Suo essere in possesso di tutti gli attributi pensabili): “In un Universo finito, sostiene Gödel, Qualcuno possiede necessariamente tutte le qualità positive, tra le quali c´è l´esistenza, e quindi è necessariamente esistente e unico (dato che essere Dio è naturalmente una qualità positiva)”.
“Un genio rimasto bambino”, fu definito per il suo candore, la sua totale incapacità pratica, a cui ha cercato per tutta la vita di sopperire la moglie, una solida e testarda signora tedesca, che lo doveva persino costringere a mangiare. Era dotato, come Einstein, di una curiosità senza limiti: a Vienna, da giovane, si interessò persino di fenomeni parapsicologici, allora di moda nella capitale austriaca. Morbosamente ipocondriaco, non solo si riteneva gravemente malato, ma anche avvelenato da cibi e medicine e diffidente nei confronti dei medici.
Al punto da lasciarsi morire di fame (è deceduto per denutrizione, nel gennaio 1978), profittando della morte degli amici, come Einstein, che vegliavano su di lui, e di un ricovero in clinica della moglie per smettere definitivamente di mangiare.