giovedì, Maggio 9, 2024
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stazione spaziale internazionale – 2

La nostra Casa nello Spazio – intervista alla Dr.ssa Marilena Montanari

Intervista sul volume “La Stazione spaziale internazionale e la sua regolamentazione”

L’International Space Station (ISS) è l’oggetto spaziale più grande che l’umanità abbia mai costruito nell’orbita terrestre, a 400 km dalle nostre teste, tanto da essere visibile a occhio nudo dal suolo, e che gira intorno alla Terra a una velocità intorno ai 28.000 chilometri orari e impiega 90 minuti per fare un’orbita completa. La sua superficie totale è equivalente a quella di un campo di calcio (è larga 109 m x 73 m e alta 20 m), il volume abitabile è di 425 m quadrati, pesa 450 tonnellate.

Quindi, fisicamente esso è un complesso modulare, composto da laboratori pressurizzati per esperimenti e piattaforme esterne per l’osservazione dell’universo e della Terra. La ISS, infatti, è prima di tutto un grande laboratorio per la ricerca scientifica: ha reso possibile lo svolgimento di esperimenti di lunga durata grazie alla quasi totale assenza di peso, test che non si sarebbero potuti svolgere sulle navette spaziali che rimangono per poco tempo in orbita. La parte più consistente degli studi effettuati a bordo della stazione riguarda l’organismo umano e il suo adattamento all’assenza di peso: si tratta di ricerche essenziali per capire come sviluppare nuovi sistemi e tecnologie per le prossime esplorazioni spaziali, forse un giorno per arrivare fino a Marte. L’equipaggio segue direttamente gli esperimenti, ne avvia di nuovi e comunica i risultati ai centri di controllo a Terra, dal quale partono istruzioni su come proseguire e approfondire le ricerche, in base agli esiti ottenuti.

Oltre a questa “connotazione tecnica” che attira gli scienziati e gli ingegneri, la ISS è fonte di interesse per studiosi delle relazioni internazionali perché si tratta anche del più grande programma di cooperazione spaziale mai realizzato finora in termini di complessità e interdipendenza creata. Esso, infatti, è legato insieme da una complessa serie di accordi di natura giuridica, politica e finanziaria tra i quindici stati coinvolti nel progetto, che regolano la proprietà dei vari componenti, i diritti e i doveri dell’equipaggio, la ripartizione dell’utilizzo della struttura, le responsabilità per le attività condotte e il meccanismo di rifornimento della ISS.

Quanto alla motivazione personale che mi ha spinto ad interessarmi a questo programma spaziale, devo dire che essa si è andata costituendo nel 2011, quando, al terzo anno di Giurisprudenza, quando avevo già chiaro che l’ambito in cui avrei voluto specializzarmi dopo la laurea sarebbe stato quello internazionalistico, per cui chiesi la tesi al professore di diritto internazionale. Egli mi propose di indagare degli ambiti di frontiera, come quello dello spazio. Per cui mi misi a studiare l’assetto giuridico predisposto dalle Nazioni Unite per l’esplorazione e l’uso pacifico dello spazio extra-atmosferico. La mia indagine, però, da lì passò ad attenzionare un programma spaziale specifico, per me di particolare fascino perché frutto di una cooperazione strutturata, multilivello e multidisciplinare: una cooperazione politica, considerato il frutto dell’accordo di collaborazione e della volontà di cooperare tra Stati e Agenzie Spaziali diverse, giuridica, perché fondata su un trattato internazionale multilaterale e su accordi di cooperazione e di implementazione, atti ad attuare la cooperazione politica, scientifica e tecnologica, per gli esperimenti che vengono progettati, condotti a bordo e realizzati sulla stazione dagli astronauti e non da ultimo, umana, considerato che si tratta della prima “casa nello spazio”, abitata ininterrottamente dal lontano 2001. Da questo primo lavoro, teso a dimostrare che la regolamentazione del programma di stazione spaziale internazionale è coerente e riprende la disciplina generale di diritto internazionale dello spazio, è derivato il successivo lavoro di ricerca che qui stiamo presentando, teso a riflettere su una prospettiva che è completamente de iure condendo, ossia quella del fine via della struttura. De iure condendo perché la discussione sulla rimozione o il riutilizzo della struttura quando non sarà più operativa è stata volutamente accantonata e rimandata nei negoziati internazionali tra i Partner, quando c’era da definire l’assetto giuridico che regolamenta il funzionamento della struttura.

Oggi la ISS è considerata una best practice per i programmi di esplorazione spaziale di lunga durata da svolgersi in cooperazione. È per tale motivo che essa è stata presa a riferimento e a modello per i nuovi programmi lunari. L’accordo internazionale sulla stazione spaziale internazionale copre tutti gli aspetti del programma, persino quello della gestione e del coordinamento dei partner durante le operazioni. Si tratta, questo, del passo necessario che deve precedere qualsiasi nuovo programma, anche lunare. Ecco perché è importante fare riferimento alla partnership e alla struttura giuridica. Il programma ISS, infatti, ci ha insegnato che pur in presenza di una struttura complessa, dinamica e del più grande artefatto dal punto di vista giuridico e tecnico, esso può funzionare bene perché l’accordo internazionale e l’intelaiatura legale che sono state concluse hanno finito con l’essere chiare e di pronta comprensione per tutti i partner. Le condizioni e i criteri operative, anche le cosiddette regole di ingaggio – cioè come gli astronauti e gli Stati attraverso essi lavorino all’interno della struttura – sono quelle che stanno per essere riutilizzate ora per il Lunar Gateway e come base per il Moon Village. La ISS è definita, nel trattato, come una stazione spaziale internazionale civile e permanentemente abitata per scopi pacifici, in accordo con il diritto internazionale. Questa è anche la base per ciò che si sta preparando per la Luna e anche oltre la Luna.

Si tratta di una struttura piramidale che vede alla base (o all’apice, come si preferisce) un accordo intergovernativo, da cui discendono 4 Memorandum of Understanding tra le Agenzie Spaziali coinvolte e a cui si iscrivono, a loro volta numerosi accordi attuativi, strumenti giuridici quali contratti conclusi partner, appaltatori e soggetti terzi coinvolti a vario titolo, come fornitori ad esempio.

L’accordo intergovernativo è stato concluso sulla base di un’iniziativa americana, perché nel 1984 il Presidente Reagan invitò “amici ed alleati” ad unirsi all’impresa. L’accordo venne raggiunto nel 1988 e i Partner coinvolti furono 4: USA, Canada, Giappone e Partner europeo (in cui parteciparono 9 Stati membri di ESA). Nel 1993, poi, gli USA proposero alla nascente Federazione Russa di unirsi al progetto e per tale motivo venne concluso un nuovo trattato nel 1998, che sostituì il precedente e che è tutt’ora la base fondante della regolamentazione del programma ISS. Quest’ultimo accordo venne quindi concluso tra 15 Stati e 5 Partner ed è la base di regolamentazione per le attività operative e di gestione delle Agenzie Spaziali, che sono disciplinate nel dettaglio nei Memoranda of Understanding.

Questi descrivono i ruoli e le responsabilità delle agenzie della configurazione, sviluppo, operazione e utilizzazione della struttura e sono caratterizzate da una struttura “hub and spokes” che vede la NASA come il perno della cooperazione con tutti gli altri Partner.

Tali accordi sono seguiti da una moltitudine di strumenti giuridici ulteriori di natura tecnica a livello di agenzia o di privati che collaborano con esse, che sono incentrati su aspetti ulteriormente di dettaglio.

Questa struttura piramidale fa pertanto comprendere che c’è un articolato impianto giuridico dietro un programma scientifico e tecnico molto strutturato, che regola ogni aspetto del funzionamento e della vita a bordo della struttura, come un codice di Condotta sull’equipaggio di astronauti, o una Policy sulla partecipazione di terzi all’utilizzazione dei moduli della ISS attraverso l’invio di esperimenti a bordo.

Il tema del diritto applicabile allo spazio extra-atmosferico in quanto tale e agli oggetti che in esso orbitano è, per così dire, “tradizionale” perché è stato al centro del dibattito da lungo da parte degli organismi internazionali.

Innanzitutto, bisogna premettere che lo spazio extra-atmosferico è stato definito dal Trattato

sulle norme che regolano l’esplorazione e l’utilizzazione, da parte degli Stati, dello spazio extra-atmosferico, compresi la Luna e gli altri corpi celesti del 1967 (in seguito Trattato sullo spazio – OST) come res communis omnium, ossia come ambiente in cui tutte le attività di esplorazione e utilizzazione dello spazio costituiscono appannaggio dell’umanità intera, ossia condotte per il bene e nell’interesse di tutti i Paesi, senza riguardo alcuno al livello del loro sviluppo economico o scientifico e gli Stati devono cooperare nelle attività spaziali. Nello spazio vige, quindi, il principio di non occupazione e appropriazione statale. Pur essendo, quindi, lo spazio una “zona franca”, non assoggettabile al regime territoriale di alcuno Stato, non si può dire lo stesso, invece, per gli oggetti spaziali nelle cui orbite vengono lanciati e posizionati.

Ad essi, infatti, le convenzioni ONU sullo spazio extra-atmosferico (in particolare l’OST del 1967 e la Convenzione sull’Immatricolazione degli oggetti spaziali del 1975) attribuisce la sovranità dello Stato e, quindi, l’esercizio della giurisdizione e il controllo allo Stato che ha immatricolato nel registro nazionale l’oggetto spaziale e ha segnalato all’ONU l’avvenuta immatricolazione.

Questo, pertanto, è anche il regime giuridico che si applica alla stazione spaziale, ma per essa vi è un ulteriore elemento da sottolineare. Infatti, essendo stata la struttura realizzata come risultato di una intensa cooperazione internazionale, non si può dire che essa sia un oggetto spaziale unico. Essa, infatti, da un punto di vista tecnico è un complesso di elementi, cioè un’istallazione modulare, polivalente, dotata di più laboratori spaziali per condurre esperimenti in campo scientifico, destinata a rimanere posizionata per un periodo prolungato in orbita. Pertanto, da un punto di vista giuridico si è giunti a ritenerla non come un oggetto spaziale unico, ma come un “grappolo”di oggetti spaziali (per dirla con le parole dei negoziatori europei), che sono stati meglio identificati e intitolati alla proprietà di Stati diversi nell’Allegato all’accordo intergovernativo concluso nel 1998. Quindi, considerando che gli Stati di immatricolazione dei singoli moduli sono diversi, diversa è la legge applicabile – pertanto la giurisdizione e il controllo – sulle porzioni di stazione internazionale inviati in orbita. Quanto agli astronauti, invece, essi appartengono ai corpi astronautici degli Stati Partner che li hanno inviati e sono, pertanto, assoggettati alle regole di ingaggio di ciascuno Stato. Resta fermo, in ogni caso, il fatto che l’Accordo sul salvataggio degli astronauti del 1968 li definisce inviati dell’umanità e, pertanto, in caso di pericolo o di rientro a terra degli stessi, qualsiasi Stato è tenuto ad intervenire in caso di necessità prestando il suo soccorso agli astronauti. Quando sono in orbita, però, oltre a queste regole sono tenuti a rispettare il Codice di Condotta del personale a bordo della stazione che è stato concluso tra i Partner nel 2002 e che definiscono come autorità di riferimento a bordo della stazione il Comandante, che è scelto concordemente tra gli Stati Partner.

Sicuramente tra i principi giuridici applicabili ad un programma di cooperazione spaziale di lunga durata si rinvengono quelli che si applicano a tutte le attività spaziali, ossia la regola base che lo spazio deve essere utilizzato con una limitazione molto chiara: per finalità pacifiche. Bisogna cioè prevenire che lo spazio venga utilizzato come una “nuova” e ulteriore area di conflitto tra le potenze terrestri. Vi è poi l’importante principio in base al quale l’esplorazione e l’utilizzazione dello spazio extra-atmosferico devono essere liberi, lo spazio deve essere accessibile per tutti e le attività devono essere effettuate a beneficio e nell’interesse di tutti i Paesi, siano essi potenze spaziali o no, Paesi ad economia avanzata o in via di sviluppo. In più, nella cooperazione si può intravvedere il principio della condivisione di risorse, che garantisce efficienza nel dispiegamento delle risorse stesse. Altro principio, che rimane invalicabile pur in presenza di un programma di lunga durata, è quello di non appropriazione statale e divieto di rivendicazione della sovranità di uno Stato. Questo principio, che è stato lapidariamente espresso nel Trattato sullo Spazio del 1967 e che è attualmente condiviso dai 111 Stati che hanno ratificato il documento, dovrà essere ancor meglio ribadito con le prossime missioni lunari e marziane, considerato il recente tentativo pubblicitario di alcune compagnie private (in particolar modo americane) di vendere delle porzioni di superficie o suolo lunare. Questa pratica identifica qualcosa di simbolico e quindi non producente effetti giuridici. Tutti questi principi sono in realtà i principi generali del diritto internazionale dello spazio, che si applicano al programma di stazione spaziale internazionale e che dovranno trovare applicazione anche per i programmi spaziali futuri.

Tra le questioni che dovranno essere presto disciplinate dai Partner, ve ne è una che non è stata ancora definita dai negoziatori dell’accordo per la ISS ed è su tale diatriba che ho incentrato il mio lavoro di ricerca. Si tratta del cosiddetto “fine vita” della struttura orbitante. Nell’opera, cioè, parto dal dato di fatto attualmente noto sul programma ISS (cioè la regolamentazione attuale) e mi chiedo quali saranno le considerazioni e le problematiche di natura giuridica che i negoziatori dovranno fronteggiare per la conclusione di un apposito accordo sul fine vita della struttura orbitante. Accordo, questo, che voleva inizialmente essere inserito per mezzo di una disposizione specifica nel trattato del 1998, ma su cui si decise di omettere il contenuto, per inconciliabilità di vedute tra i partner su quello che avrebbe dovuto essere la conclusione del programma ISS.

Quindi nell’opera identifico, come elementi su cui è necessario riflettere, quello terminologico di stazione spaziale come oggetto unico o come oggetto composito o come pluralità di oggetti; la questione dell’organizzazione della partnership e della preminenza del partner americano rispetto agli altri; la questione della condivisione dei dati e delle informazioni necessarie per rimuovere la struttura orbitante e la questione delle responsabilità internazionale e per danni con riferimento all’attività di rimozione della struttura. Il tutto individuando sei ipotetici scenari di fine vita, sulla base di precedenti esperienze di rimozione di oggetti spaziali. 1. Il modello di rientro incontrollato attraverso un decadimento naturale, considerata la periodica necessità di riposizionare la struttura; 2. la rimozione della struttura in due fasi: iniziale decadimento naturale seguito da de-orbiting controllato della struttura per mezzo di uno o più moduli di servizio, come avvenne con la stazione spaziale russa MIR; 3. il de-orbiting guidato dell’intera struttura per mezzo di più veicoli spaziali; 4. il de-orbiting controllato della stazione in più segmenti per mezzo di più moduli di servizio; 5. il recupero di elementi della struttura che possano essere poi riutilizzati in orbita; 6. lo smaltimento dell’intera stazione in sicurezza attraverso un nuovo modulo di servizio designato ad hoc.

La domanda che rimane in sottofondo e che emerge solo alla fine dell’opera è se si possa dire sussistente un obbligo giuridico di rimozione dall’orbita di posizionamento degli oggetti spaziali inutilizzati e obsoleti. Esso sarebbe complementare all’idea che sta emergendo sulla necessità di garantire la sostenibilità a lungo termine delle attività svolte nello spazio extra-atmosferico. Di essa se ne è parlato molto recentemente, considerata la seria minaccia dello space debris che popola le orbite terrestri. Infatti, l’ammasso di detriti o beni inutilizzabili, come nel caso di piccoli pezzi di materiale cometario e asteroidale, oppure satelliti giunti al termine della loro vita operativa o che non sono mai stati funzionanti, (ma non solo, anche di stadi di razzi che si sono sganciati dalla capsula spaziale contenente satelliti da posizionare, oggetti molto piccoli come bulloni, naselli meccanici, coperture di payloads o gl’innumerevoli frammenti di oggetti generatisi a seguito di collisioni spaziali, di deterioramento di oggetti fluttuanti o di esplosioni nello spazio) sono molto pericolosi e negli ultimi anni sono aumentati vertiginosamente, divenendo un problema emergente per l’alta probabilità di collisione con satelliti attivi che, a loro volta, producono altra spazzatura contribuendo ad ingenerare il disastroso scenario della c.d. sindrome di Kessler: secondo la quale persino i frammenti più piccoli potrebbero divenire fortemente pericolosi e con un’elevata carica distruttiva, a causa dell’alta velocità orbitale che li trasforma in veri e propri proiettili.

Per arginare il problema, delle prime linee guida vennero adottate dallo Inter-Agency Space Debris Coordination Committee nel 2002, quale organo tecnico inter-agenziale con il compito di monitorare la spazzatura spaziale esistente e a prevenire il crearsene di altra. Diversamente, le Space Debris Mitigation Guidelines elaborate entro lo Scientific and Technical Sub-Committee del COPUOS vennero approvate nel 2007 in sessione plenaria (nel documento A/62/20) e adottate dall’Assemblea Generale ONU con Risoluzione n. 62/217 del 22 dicembre 2007. Si tratta di norme comportamentali che devono essere adottate tanto nella fase di progettazione di un programma spaziale quanto in quella di esecuzione ed operazione, al fine di prevenire l’insorgere di ulteriori rifiuti che andrebbero ad ammassarsi al debris esistente.

Le 21 Guidelines for the long-term sustainability of outer space activities, adottate nel giugno 2019 si pongono, invece, un obiettivo di più ampio respiro, di cui la mitigazione e la rimozione dei detriti spaziali è solamente un singolo aspetto. Si tratta, infatti, di linee guida volte a promuovere la sostenibilità delle attività spaziali, ribadendo come esse debbano essere condotte nel rispetto dell’ambiente extra-atmosferico, nonché esser tali da non precludere la conduzione di ulteriori attività nel futuro e i diritti di accesso allo spazio extra-atmosferico per le generazioni future. Tali concetti richiamano fortemente l’idea di sviluppo sostenibile che è stata introdotta con la Conferenza mondiale Rio +20 e che ha portato alla sua più ampia articolazione, dalla predisposizione prima degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio e poi degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, questi ultimi contenuti nell’Agenda 2030 ONU.

In sintesi, l’idea di fondo che permea l’opera è che ogni attività spaziale è sì il risultato del genio umano, della sua capacità inventiva e di collaborare anche con altre persone, ma deve essere condotta responsabilmente e in modo sostenibile, nel rispetto degli esseri umani presenti, delle generazioni future e dello stesso ambiente extra-atmosferico.

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